1944, lager per prigionieri di guerra di Sandbostel, Bassa Sassonia, Germania nord-occidentale. Tra i detenuti del campo ci sono l’ingegnere Carlo Martignago, il radiotecnico Olivero, i militari Tarini, Angiolillo e Talotti. Nel corso di interminabili giornate di fame, angoscia e tedio, i cinque architettano un piano, destinato a rompere la cortina di silenzio che li separa dall’esterno.
Una latta verniciata con il catrame, una manciata di chiodi, un filo di rame, un pezzo di stagnola, un paio di cartine di sigarette, qualche scampolo di carta per avvolgere il grasso, un grumo di polvere di grafite, un portasapone da barba, cera d’api, qualche decina di centimetri di filo isolato. Nasce così Radio Caterina, chissà, forse in onore di qualche lontana fidanzata. I condensatori sono costruiti con la stagnola e le cartine di sigarette, la resistenza fissa con l’involucro della margarina e la grafite di matita, le bobine e il variometro con un portasapone e del cartone avvolto a cilindro e del filo… ecco, il filo: deve essere isolato e non è facile da reperire, c’è quello ricavato dalle lampadine elettriche ma non è sufficiente, si cerca una soluzione, Carlo Martignago ha notato che il sergente della Gestapo addetto ai pacchi lascia spesso la sua bicicletta appoggiata al muro della baracca per qualche ora, un lasso di tempo sufficiente per svitare la dinamo del fanale, estrarre il materiale necessario e rimontare.
Il “filo del crucco”, come sarà ribattezzato dai cinque in preda all’eccitazione del furto, è uno degli ultimi elementi utili, presto tutto sarà pronto. La batteria è costruita con un astuccio rotto di una vecchia pila, alcune gocce di acido acetico ottenuto dai barattoli di sottaceti, venti monete da due soldi, una dozzina di dischi di zinco ricavati dalle piastrelle dei lavatoi e altrettanti di panno, ritagliati da una coperta. La cuffia è un barattolo, un disco di cartone e i “magnetini del crucco”, sottratti alla famosa dinamo di cui sopra.
Manca una valvola, unico componente che non si riesce a costruire nel campo e che arriva rocambolescamente dall’esterno, nascosto nel fondo di una borraccia, e poi l’ultimo fondamentale tassello: l’antenna. Ecco allora che Olivero, il radiotecnico, ha un’idea geniale, decide di mettere in gioco tutto sé stesso, nel vero senso della parola: issato su un telaio di un vecchio letto a castello conservato nel magazzino del lager, tiene tra i denti il pezzo di stagnola con cui termina il filo e prende ad abbassare e sollevare una gamba appesa a penzoloni, variando la capacità della trasmittente e regolando la reazione.
È il 4 novembre 1944, fa buio tra le baracche del campo, Olivero dondola la gamba e Caterina gracchia, i primi segnali sono quelli di Radio Londra, captati grazie a un’antenna umana e al genio di cinque internati.
Radio Caterina non è l’unica emittente clandestina nata all’interno dei campi di prigionia nazisti, ma forse incarna l’esperienza più longeva. Altre radio in altri campi saranno requisite e i proprietari severamente puniti, ma Caterina sfugge a tutte le perquisizioni. La Gestapo le darà una caccia spietata, ma non la troverà mai, perché Caterina viene montata e smontata ogni volta, i pezzi nascosti in una gavetta e sul fondo di una borraccia, ben protetti dai suoi artefici. Ogni notte la voce gracchiante riscalda i prigionieri e li tiene in contatto con il mondo, ricevendo i segnali dai microfoni di Londra, Berlino e Bari. Caterina è a tutti gli effetti una radio ricevente a onde medie, che diventerà celebre in Italia negli anni dopo la guerra grazie ai testi di Giovannino Guareschi, anche lui internato militare a Sandbostel. Guareschi ne scrive all’interno del suo Diario Clandestino.
“Quando si tratta di “far fesso” qualcuno, per noi italiani la questione diventa di prestigio nazionale e si vedono cose impensabili. Si vede, per esempio, l’ingegner M. (Martignago, N.d.R.), un personaggio massiccio, dignitoso e arcigno come una equazione di settimo grado, avvicinarsi tranquillo alla bicicletta che un sergente della Gestapo appoggia ogni giorno alla baracca dell’ufficio pacchi. Sotto gli occhi della sentinella, annidata sulla torretta lì vicino, il grosso uomo svita con indifferenza la dinamo dal biciclo, se la porta in luogo appartato, la smonta, toglie il filo di rame dell’avvolgimento, rimonta il meccanismo, ritorna al biciclo, riavvita la dinamo. Ed ecco procurata la bobina di cui abbisogna la radio…”.
Non so quanti di noi oggi sarebbero in grado di costruire una ricevente con un portasapone e un pezzetto di stagnola, quel che è certo è che la radio è tutt’ora il medium più agile in assoluto. È agile perché si può acquistare con pochi euro, perché ne esistono di grandi come un pugno, perché funzionano semplicemente con due pile stilo, perché nel suo secolo di vita è stata in grado di attraversare barriere e infiltrarsi nei luoghi più blindati. Oltre a Radio Caterina, durante la seconda guerra mondiale altre esperienze radiofoniche hanno preso vita in altri lager, a Czestokowa, Zeithan, a Kaisersteinbrunch, a Mauthausen, a Versen, ogni emittente artigianale cela una storia affascinante (sono tutte racchiuse nel sito internet radio-caterina.org, realizzato dal ricercatore Maurizio Grillini).
In altre epoche storiche, in diversi scenari di prigionia e segregazione, la radio è stata ed è ancora oggi un’alleata preziosa. La sua storia indissolubilmente si intreccia con la lotta per la libertà e per il diritto di parola, le frequenze attraversano fili spinati, indugiano di fronte ai muri e infine si insinuano tra crepe e fratture. Dall’altra parte dell’oceano, a San Francisco, negli studi di Prison Radio i detenuti raccontano le loro vicende, Mumia Abu-Jamal è stato uno di loro. All’interno del carcere di Livingston, in Texas, uno studio attrezzato permette la realizzazione dei programmi di The tank, una radio che trasmette sulla modulazione di frequenza 106.5 fin fuori il parcheggio dell’istituto.
A Buenos Aires compie 32 anni in questi giorni radio La Colifata (colifato significa matto nel dialetto lunfardo, quello parlato dagli abitanti della capitale argentina), un’emittente nata su iniziativa dello psicologo Alfedo Olivera nel giardino di El Borda, il più grande ospedale psichiatrico della nazione, che offre un palinsesto ricco di trasmissioni, servizi, approfondimenti curati dai pazienti stessi del manicomio. La sorella maggiore di radio La Colifata è in Italia, a Trieste, si chiama radio Fragola e nasce nei primi anni ’80 all’interno del padiglione Emme dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. La notte di Capodanno a Roma da anni ormai l’emittente locale radio Onda Rossa organizza una diretta, un presidio e un corteo intorno alle mura del carcere.
Nel 2019 ho avuto l’onore di partecipare come esperta radiofonica a un laboratorio rivolto a un gruppo di detenuti della casa circondariale di Regina Coeli. Abbiamo riso molto (a volte anche pianto). Io ho imparato tantissimo, loro forse un paio di nozioni tecniche, ma soprattutto si sono tenuti lontani dalla routine carceraria per una trentina di ore, sottraendosi al ciabattìo nei corridoi, al piattume di psicofarmaci narcotizzato. Io ho imparato a fare il caffè con le bucce del limone, ho capito perché sia meglio evitare di dormire nella terza branda e quanto sia importante rispondere all’appello la mattina quando le guardie sbattono sulle grate. Ma soprattutto mi è stato chiaro quanto calore possa portare la radio all’interno di una cella.
In questi giorni in Italia si sta parlando molto di 41 bis, esiste da trenta anni ma solo il caso di Alfredo Cospito ha permesso al dibattito su questo regime definito di “carcere duro” di occupare le prime pagine dei giornali. Nato per evitare contatti con l’esterno, il 41 bis prevede una serie di norme che poco hanno a che vedere con la sicurezza e molto con la ritorsione, la punizione e la vendetta. Mi sono chiesta più volte, prima del suo trasferimento a Milano, se Cospito, nella sua cella in Sardegna costruita sotto il livello del mare, in una struttura che il suo avvocato non ha esitato a equiparare a un girone dell’inferno dantesco, avesse avuto la possibilità di ascoltare la radio.
Non è chiara la norma ma sembra che ogni istituto penitenziario abbia le sue regole e decida se e a quali frequenze al detenuto è concesso di accedere. Ma l’etere, la storia e la scienza ce lo insegnano, è inafferrabile, etereo. E l’ingegno umano, nonostante tutto, tende ad oltrepassare limiti e confini. Sono certa che arriverà il giorno in cui queste barbarie non avranno più senso per nessuno, magari sacrificando qualche altra pallina di stagnola, una dozzina di portasapone e qualche metro di filo isolato.
Oggi, come ogni 13 febbraio, viene celebrata la Giornata Mondiale della Radio, che anche noi intendiamo celebrare con questo articolo.
Le immagini sono tutte di Alice Giacopini.
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